In questo video Bertrand Russel espone le sue idee riguardo esistenza di Dio e religione. Tra le motivazioni esposte a sostegno della sua "non credenza in Dio" Russel cita la mancanza di buoni (validi e fondati) argomenti a sostegno dell'esistenza di un creatore. Voi che dite, basta non avere buoni argomenti per non credere in Dio oppure le questioni di fede sono "extra - logica"? Si può essere coscienti della non esistenza o esistenza di Dio 'solo' perché abbiamo argomenti a favore di una o dell'altra ipotesi?
Dio: tra i personaggi di fantasia è quello che preferisco. (Homer Simpson)
Ciao.
RispondiElimina1) Normalmente riteniamo giustificato non credere a molte cose di cui non abbiamo provato che non sono vere. Esempio: non credo che ci sia ora nella biblioteca in cui mi trovo un elefante con caratteristiche tali da renderlo irrilevabile con ogni mezzo di cui disponiamo (invisibile, inodore, ...).
2)Normalmente riteniamo giustificato credere a molte cose di cui abbiamo prove deboli. Esempio: crediamo che una persona sia degna della nostra fiducia perché ci saluta sempre con rispetto.
3) Si possono stabilire dei livelli di credenza in p che variano a seconda del grado di affidabilità della prova di p.
4) Normalmente riteniamo giustificato credere p se non è provata una tesi incompatibile r quando l’onere della prova stia al difensore di r. Un problema che si pone, però, è che non è chiaro come attribuire l’onere della prova. Di solito si pensa che l’onere della prova spetti al difensore della tesi più metafisicamente impegnativa o logicamente impegnativa o della tesi più innovativa (storicamente, metafisicamente o logicamente). Seguono vari problemi:
(a) cosa significa “metafisicamente più impegnativo”? Se X sostiene che forse Dio esiste e forse non esiste e Y sostiene che Dio esiste, sembra che Y stia sostenendo la tesi metafisicamente più impegnativa perché vuole aggiungere un ente all’insieme degli enti esistenti. Ma se X basasse la sua argomentazione su un rinnovamento della metafisica accettata in quel periodo e Y no? Ci possono essere casi in cui sarebbe metafisicamente più impegnativo sostenere la non esistenza di un ente piuttosto che la sua esistenza? Direi di sì: pensiamo al solipsismo. E’ chiaro che combinando insieme i vari impegni e le varie novità (metafisiche, logiche, storiche) si possono ottenere situazioni in cui non è chiaro a chi attribuire l’onere della prova.
5) Supponiamo di aver risolto i vari dubbi circa l’onere della prova, i presupposti metafisici e logici su cui basare il ragionamento. Direi che se, dopo aver indagato con accortezza per un tempo ragionevole non si riesce a dimostrare una tesi, allora, almeno per tesi di una certa natura, siamo autorizzati a credere alla tesi opposta. Esempio: se attribuiamo a Dio una serie di caratteristiche che lo renderebbero un ente ben sorprendente (trinità, onnipotenza, …) e dopo aver indagato con accortezza per un tempo ragionevole, non giungiamo a provare la sua esistenza, allora siamo autorizzati a pensare che non esiste, anzi direi che siamo scientificamente obbligati a pensare che molto verosimilmente non esiste. Sorgono vari problemi:
(a) cosa significa “indagare con accortezza”?
(b) cosa significa “per un tempo ragionevole”?
(c) questo vale per i problemi di qualunque natura? Sono propenso a credere di sì. Supponiamo di non aver dimostrato che esiste il bosone di Higgs. Oggi abbiamo a lungo cercato il bosone di Higgs, ma non l’abbiamo ancora trovato. Gli scienziati, tuttavia, continuano a pensare che possa trovarsi. Stanno violando il criterio enunciato in questo paragrafo. Credo di no perché mi sembra che in questa ricerca si può dire che non è stato cercato con accortezza per un tempo ragionevole. Data la difficoltà della ricerca qualche prova al Cern e in altri laboratori possono non essere considerati sufficienti né per dichiarare accorta la ricerca, né abbastanza duratura. C’è il rischio di difendere tesi che frenano l’avanzamento della nostra conoscenza del mondo? Il rischio, naturalmente, c’è.
Ciao,
Matteo
Matteo ha detto molte cose e non sono sicuro di essere riuscito a seguire il suo ragionamento in tutti i passaggi.
RispondiEliminaAd ogni modo, ci sono due punti su cui vorrei tornare.
1. Sono d'accordo con Matteo che il modo migliore per mettere giù il dibattito tra atei e teisti e' in termini di gradi di evidenza. Ossia, ne' il teista ha un argomento deduttivo fondato per l'esistenza di dio, ne' l'ateo ne ha uno per la sua non esistenza. Tuttavia, e' rarissimo che uno disponga di un argomento deduttivo fondato per una qualsiasi tesi. Di solito, più modestamente, ci accontentiamo di argomenti induttivi ("induttivo" qui contiene anche "abduttivo"). Detto altrimenti, vediamo quanta evidenza c'e' a favore di una tesi, anche se questa evidenza non e' conclusiva.
2. La mia impressione e', molto semplicemente, che il teista non abbia uno straccio di evidenza a sostegno della sua tesi.
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RispondiEliminaCiao,
RispondiEliminail mio commento voleva trattare solo il problema di come, di solito, ci riteniamo giustificati a credere una certa tesi. I problemi che sorgono, dal momento che spesso non disponiamo di prove per le nostre credenze, dipendono da come distribuiamo l'onere della prova, se pensiamo che sia giusto credere non-p (magari precisando che si tratta solo di una credenza probabile) se non è provato p e l'onere della prova spetta a p, ...
Per attribuire l'onere della prova, mi sembra naturale fare riferimento a quanto una certa tesi si rivela metafisicamente impegnativa, ma questo concetto non è chiaro.
Inoltre sorgono i problemi di determinare quanto e come occorre cercare una prova di p e, se non la si trova, ritenersi giustificati a credere non-p.
Anche a me sembra che il teista, ma anche il deista , non siano messi bene.
A parte questo, però, l'argomento concerne la natura e l'uso legittimo della razionalità e si collega anche con un post di Luca di qualche settimana fa.
Ciao,
Matteo
Ciao,
RispondiEliminaricordo di avere sfogliato, un anno fa (ero ancora a Barcelona), il libro di Plantinga e Tooley, "Knowledge of God", Blackwell, Oxford 2008.
Plantinga sembrava sostenere che, dal punto di vista epistemologico, sarebbe proprio l'ateo a sostenere la tesi più impegnativa ed ardua.
Purtroppo non ho letto il libro. Volevo solo segnalare quanto sia difficile attribuire a chi spetti l'onere della prova, che è una mossa decisiva per capire se si è autorizzati a credere non-p in assenza di una prova di p.
Ciao,
Matteo
Premesso che secondo me il principio: "Quod gratis adfirmatur, gratis negatur" rimane indiscutibile anche per le questioni di fede.
RispondiEliminaPer credere in qualcosa ed orientare la nostra vita secondo la sua esistenza dobbiamo avere qualcosa di solido, un buon argomento diremmo noi, in cui ogni premessa è fondata ed indiscutibile. Ad esempio non credo nell'immortalità biologica dell'uomo perché esiste (almeno) un buon argomento che dimostra l'assurdità di questa ipotesi.
La mia questione era questa; si può affermare che questioni di fede viaggino fuori il dominio della logica? che trascendenza, divinità, anima, siano questioni a cui la logica, seppur la più complessa, non può rispondere.
Oppure dobbiamo affermare che, anche per la fede, "Quod gratis adfirmatur, gratis negatur" ?
Non capisco perché Putnam dovrebbe dire che l'ateo si impegni più del credente. L'ateo non vuole dimostrare che Dio non esiste, semplicemente non lo assume, scusate i termini, nella sua ontologia. Alla domanda di quine "che cosa c'è?", l'ateo non risponde se c'è o non c'è dio, semplicemente non lo assume.
E il credente che si impegna, ontologicamente, sull'esistenza di un ente, dio in questo caso, di cui non ha prove o argomenti che reggono l'assunzione stessa.
Dunque, che dite. Per le questioni di fede si fa uno strappo e si crede anche a cose come resurrezioni, miracoli e spiriti santi che fecondano madonne oppure si usa un po' di amor proprio filosofico e ci si rassegna con lo stile Oxford del buon Bertrand?
Uno come Van Inwagen propone un argomento in cui discute l'esistenza di Dio paragonandola al Darwinismo. Secondo me non regge ma se volete vi giro il pezzo.
I PARTE
RispondiEliminaCiao,
non è così semplicemente capire chi sia colui che si impegna meno.
Supponiamo che A creda alla tesi 'gli oggetti materiali esistono quando un soggetto li esperisce e gli oggetti materiali esistono quando un soggetto non li esperisce' e B creda alla tesi 'gli oggetti materiali esistono quando un soggetto li esperisce'.
Se chiamiamo p il primo congiunto e q il secondo congiunto e assumiamo che credere 'p&q' sia più impegnativo di credere 'p', allora A sta sostenendo una tesi più impegnativa di B.
L'apparenza, però, è che sia B a sostenere una tesi più impegnativa: ascoltandolo, infatti, sorgerebbe spontanea la domanda 'perché neghi q?'.
B sembra sostenere una tesi più impegnativa perché va contro quelle che ci sembrano buone ragioni per credere ‘p&q’ e, in particolare, per credere q? Naturalmente è possibile trovare varie ragioni per credere q, ma mi sembra che la situazione più comune sia assumerlo proprio perché si ritiene che la tesi di A, in questo caso, sia più semplice di quella di B, nonostante la prima, in questa enunciazione, abbia assunto la forma ‘p&q’ e la seconda p.
Perché ci sembra più semplice? Non mi sembra facile capirlo. Infatti B non assume non-q. In tal caso la sua tesi sarebbe ‘p&non-q’ e non sarebbe più semplice della tesi di A e, inoltre, diventerebbe estremamente astrusa nel momento in cui cercasse di argomentare a favore di non-q.
Un criterio di semplicità potrebbe essere la concordanza con ciò che pensa la maggioranza degli uomini, o degli uomini dotati di ragione, o degli esperti. Se si scegliesse il criterio della concordanza con ciò che pensa la maggioranza degli uomini, l’onere della prova, nel caso di Leonardo, spetterebbe all’ateo. Ognuna di queste proposte presenta molte difficoltà (come riconoscere gli esperti?, …) che, ora, però tralascio.
II PARTE
RispondiEliminaAggiungo un’altra osservazione. I modi per enunciare una tesi sono infiniti e possono esemplificare, quindi, infinite forme logiche (supposto di sapere cosa siano). In certi casi può essere più semplice, dal punto di vista della forma logica, una tesi che, in un altro, legittimo caso, può essere più complessa o possono essere complesse allo stesso grado. Esempi: riformuliamo l’esempio di A e B nei modi seguenti.
a) Stessa complessità. A sostiene ‘gli oggetti materiali hanno un’esistenza indipendente dal soggetto che li esperisce’ (sia r) e B sostiene ‘non è lecito assumere che gli oggetti materiali abbiano un’esistenza indipendente dal soggetto che li esperisce’ (sia s). Analisi a livello proposizionale: A sostiene r e B sostiene s.
b) B è più complesso. Tesi dell’esempio a), ma analisi a livello predicativo in una logica epistemica con E=‘avere un’esistenza indipendente dal soggetto che li esperisce’ come unico predicato primitivo. A sostiene ‘per ogni x: Ex’ e B sostiene ‘non è lecito assumere: per ogni x: Ex’.
c) B è più complesso (indipendentemente dal livello di profondità dell’analisi). A sostiene ‘gli oggetti materiali hanno un’esistenza indipendente dal soggetto che li esperisce’ e B sostiene ‘non è lecito assumere che o necessariamente gli oggetti hanno un’esistenza indipendente dal soggetto che li esperisce o necessariamente non è vero che gli oggetti hanno un’esistenza indipendente dal soggetto che li esperisce’.
III PARTE
RispondiEliminaQuesto pone il problema di capire quando due tesi siano la stessa. Mi sembra, infatti, che, nonostante le riformulazioni A e B dicano sempre la stessa cosa. Ma come si può precisare questa impressione. Letteralmente dicono cose diverse, usano concetti diversi e sono necessarie logiche diverse per trattarli (a dire il vero le cose sono più complicate perché la logica proposizionale può essere considerata un frammento della logica predicativa epistemica, ma non approfondisco questo aspetto ora).
Un modo potrebbe essere quello di fissare un linguaggio in cui tradurre gli enunciati, assumere una semantica in cui interpretare quel linguaggio e dire che due tesi sono equivalenti se sono vere esattamente negli stessi casi. Come capite, però, ogni passaggio sarebbe problematico: quale linguaggio (a seconda di come fisso il vocabolario ottengo formalizzazioni diverse), quale semantica (teoria dei tipi, teoria degli insiemi, mondi possibili, …)?
Un’altra osservazione: a seconda del livello di analisi logica ottengo formalizzazioni diverse (si vedano i casi a) e b) sopra). Se ho un linguaggio formale posso trovare il livello più profondo di tutti, ma non è detto che questo livello sia quello più fedele al significato della tesi formulata nel linguaggio naturale.
Grazie per gli interessanti spunti di riflessione.
Ciao,
Matteo
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RispondiElimina"L'apparenza, però, è che sia B a sostenere una tesi più impegnativa: ascoltandolo, infatti, sorgerebbe spontanea la domanda 'perché neghi q?"
RispondiEliminaNon miè chiaro. Io non nego l'esistenza di Dio, semplicemente non assumo nessun ente che gli corrisponda nella mia ontologia. La scelta è questa: non voglio assumere nulla che non sia certo e dimostrabile con argomenti validi e fondati nel mio dominio di oggetti supponendo che questo dominio sia quello etichettato da "assunzioni che regolano vita e condotta morale".
Il religioso-credente, assume quest'ente e non io che, non lo nego ma, ripeto, non lo assumo. La domanda perché neghi q, dunque, non è così naturale da porsi mentre invece perché assumi un q di cui non hai prova mi sembra molto più lecita.
Se il problema è "solo" che il non assumere porta ai tuoi b) e c) del punto 2, allora tutto si potrebbe estendere a qualsiasi ente non assunto, dai cavalli rosa alle idee verdi ed incolore che dormono furiosamente. Questo mi sembra filosoficamente inaccettabile.
Nella tua prima parte, forse hai già risposto a quello che ho appena scritto ma non mi è chiaro.
grazie a te per le risposte,
leo
1) Ciao,
RispondiEliminaper errore ho scritto "perché neghi q", ma avrei dovuto scrivere "perché non assumi q". A sta assumendo quel che praticamente ogni uomo, e anche ogni specialista di filosofia assume, invece B sta assumendo una tesi che, formulata nel modo sopra, secondo il criterio citato, dovrebbe essere meno impegnativa e, invece, mi sembra naturale considerare più impegnativa perché impedisce un'assunzione molto naturale.
2) Anche a me sembra inaccettabile ritenere che l'onere della prova tra che sostiene 'non esiste un elefante irrilevabile accanto a me' e chi sostiene 'non assumo che non esista un elefante irrilevabile accanto a me' ricada sul primo.
RispondiEliminaEppure secondo il principio intuitivamente valido per cui l'onere della prova ricade su chi fa assunzioni più forti, sembra proprio così.
Perché accade questo? Come ovviarci? Nei precedenti interventi ho cercato di dire che non mi è chiaro come ciò avvenga e quale plausibilità abbia.
3) Un ulteriore punto che avevo richiamato era sembra corretto dire che tesi equivalenti possono ricevere formulazioni diverse, ma a seconda di come si forniscono queste formulazioni sembra cambiare radicalmente il giudizio su chi ricada l'onere della prova.
RispondiEliminaInoltre la traduzione in un linguaggio formale, se la si ritenesse utile, e la valutazione di quanto siano impegnative certe tesi e se certe formulazioni di una tesi siano equivalenti comportano molti passaggi non chiari.
Per gli esempi, rimando ai post precedenti.
Ciao,
Matteo
Io avrei una perplessità "iniziale". Ovvero la descrizione definita (?) "Dio". Se non ricordo male il buon Anselmo, per discutere con un non credente e non truccare così i dadi, cercò una parafrasi per "Dio", ovvero: "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande".
RispondiEliminaOra le mie perplessità sono:
1) Che cos'è questo "Dio"? Che significa "Dio è un Dio"?
2) Perché "Dio" e non invece uno "sverzillatore da ventuordici poli"? Dove lo mettiamo nel nostro catalogo?
3) E poi, una volta che Lo abbiamo condito, se non proprio in "salsa romana" come diceva Bruno, almeno in maniera accettabile per i non credenti, siamo certi che mantenga ancora tutte le peculiarità che un "credente" gli attribuisce?
Ciao,
RispondiEliminanon vorrei esser confuso né con il teista né con il deista. Anch'io penso che le prove a favore dell'esistenza di dio siano molto deboli. Anzi, sono portato a credere che il concetto di un ente onnipotente sia contraddittorio (la stessa cosa si potrebbe dire per onniscienza, ... figurarsi poi per l'uni-trinità). Se una definizione è contraddittoria non può indicare nulla nella realtà (a meno di essere dialeteisti).
Un ulteriore problema, poi, ammesso di aver provato l'esistenza di dio, sarebbe provarne l'unicità e fornire motivi per accettare tutti gli articoli di una certa fede. Per ognuna di queste cose occorre fornire un argomento separato.
Nei miei post non discutevo del problema di dio, ma del problemantecedente, che ben veniva in luce a questo proposito, di come possiamo considerarci legittimati ad avere una certa opinione piuttosto che un'altra (di qui i problemi dell'onere della prova, della formulazione della tesi, ...).
Ciao,
Matteo